Se n’è andata anche lei, la prima medaglia d’oro della scherma femminile italiana. L’ho conosciuta, l’ho ammirata, e molto apprezzata, e non solo per i meriti sportivi. Per scrivere di Irene Camber, sul secondo volume per i 100 anni della Fis, ero andato a trovarla nella sua bella casa di Lissone: mi aveva narrato tanti episodi interessanti e rivelatori, e mi aveva affidato con fiducia le sue preziose carte, e foto, da cui ho tratto la storia che ho raccontato, e che qui vi ripropongo. La foto è la stessa che campeggia nel Museo dell’Agorà: un esempio che resterà sempre vivo, per la scherma italiana e mondiale.
Ed ecco, finalmente, per il nostro fioretto femminile, il battesimo delle prime Olimpiadi, a Londra nel 1948. Vinse la Elek, ungherese, che riprese lo scettro conquistato a Berlino, dodici anni prima.
Velleda Cesari entrò in finale, settima. Irene Camber si fermò in semifinale e Libera nei quarti. Le italiane crescevano, e si vedeva. Ai mondiali successivi, al Cairo, il fioretto femminile a squadre non c’era. La Strukel era di nuovo tra le prime otto. Dall’anno successivo, il 1950, l’Italia sarà regolarmente presente. A Montecarlo la Camber fu sesta, la migliore, mentre la squadra fu quarta. A Stoccolma, nel ’51, nessuna italiana fra le prime otto. E arriviamo a Helsinki. La gara di fioretto femminile iniziò alle due del pomeriggio. Dopo la mezzanotte, le fiorettiste lottavano ancora. Irene Camber aveva raggiunto la finale delle prime otto e venne subito sconfitta dalle due statunitensi. Gli italiani erano andati tutti via, per un motivo o per l’altro, tranne i pochissimi indispensabili. La Camber, dovevano aver pensato, aveva già fatto abbastanza. Di più non avrebbe potuto. Invece, assalto dopo assalto, Irene costruì dentro di sé la convinzione di potercela fare.
Superò la favoritissima Helek, costringendola allo spareggio. Poi la batté di nuovo. L’Olimpiade era sua! Per la prima volta un’italiana vinceva l’oro nella scherma. Era la seconda medaglia olimpica femminile italiana: la prima l’aveva vinta a Berlino un’ostacolista, Ondina Valla: il suo vero nome era Trebisonda. Come abbiamo anticipato, i giornali titolarono “L’inattesa Camber”. Titolo ripreso da Cristina Sartori per il suo libro sulla campionessa olimpica. Non se l’aspettava nessuno, anche se i segnali c’erano tutti. Irene aveva vinto gare importanti, nei mesi precedenti, battendo anche la stessa Helek. Dopo tanta anticamera, si apriva per le donne un filone che si sarebbe rivelato ricco di frutti qualche lustro più avanti. E che ancora continua, più generoso che mai.
Come per i campioni che verranno, non è questa la sede per fare il conto delle medaglie. La Camber ha vinto individualmente un’Olimpiade, un campionato del mondo assoluti e uno universitario, due titoli italiani e tante altre gare importanti. A squadre ha contribuito, tra l’altro, all’inaugurazione del ricchissimo bottino olimpico del nostro fioretto femminile, con il bronzo di Roma ’60. Ha partecipato, come atleta, a quattro Olimpiadi, rinunciando a quella di Melbourne nel 1956 per sposarsi con Giangiacomo Corno e per non sacrificare il lavoro: lei che è stata, nel dopoguerra, la prima donna a laurearsi in Chimica industriale, nel 1950.
Sono andato a trovare Irene Camber a Lissone, dove abita, nel la casa di famiglia del marito, accanto all’azienda. Ho conosciuto una bella signora, dagli occhi luminosi, molto gentile e disponibile, per nulla compiaciuta dei suoi successi, che non sono da poco, nello sport come nella professione. Mi ha colpito per alcune sue affermazioni: “Che bella cosa, la disciplina!” ha esclamato con convinzione. Nata a Trieste il 12 febbraio 1926, ebbe dal padre, avvocato e poeta nonché patriota, ma inviso al regime fascista, un’educazione molto severa per gli standard attuali: ma lei la ricorda con grande riconoscenza. Per insegnarle a nuotare, il padre la buttò in acqua dalla barca, a quattro anni. Quando vinse la sua prima gara, la portò via prima della premiazione: “Hai vinto, non ti basta?”. Se ne ricordò forse tanti anni dopo, a Roma nel ’60, quando se ne andò prima della premiazione, per non lasciare soli i suoi bambini. Ed era la prima medaglia olimpica della squadra femminile italiana. Per lei lo sport ha rappresentato una grande occasione di crescita, per confrontarsi, come le avevano insegnato, in primo luogo con l’avversario interiore. Lo sport le ha dato amicizie, ma soprattutto, come mi ha detto, una grande capacità di organizzare il suo tempo e, appunto, un’ottima autodisciplina. Nella sua scala di valori lo sport non è stato certo al primo posto, lo ha dimostrato rinunciando a occasioni importanti, quando la famiglia o il lavoro potevano soffrirne più del giusto.
E le amicizie: quella con le avversarie, come la Elek, o Velleda Cesari, che fu anche sua compagna di squadra e di allenamento. Quando seppe che era sola e ammalata, a Genova, la invitò a casa sua e le fu vicina nei suoi ultimi giorni. Mi ha colpito anche il ricordo affettuoso e riconoscente per i suoi maestri di scherma: tutti, incominciando da quello che l’aveva messa in guardia, Carlo De Palma, della classica scuola napoletana, che dopo un lungo periodo di insegnamento in Ungheria concludeva la sua lunga carriera tornando per la seconda volta a Trieste, dove fu maestro anche di Rosetta Cecovini e Clelia Visa. Poi fu la volta di Dino Turio, della scuola livornese di Beppe Nadi: a lui va il merito di aver creato un forte nucleo di fiorettiste, tra le quali anche Silvia Strukel, già ricordata, e Maria Rottl. Più tardi, a queste si aggiunse Claudia Pasini, che fece parte della squadra olimpica vincitrice del bronzo a Roma.
Al gruppo triestino, ma allieva del maestro Vittorio Tagliapietra, apparteneva anche un’altra nazionale, Alberta Lorenzoni. Nel 1947, iscritta a Padova alla Facoltà di Chimica industriale, Irene Camber aveva da un po’ abbandonato la scherma, quando si convinse a riprendere in mano il fioretto: da quelle parti c’era la famosa Accademia Comini, dove Guido, il figlio del fondatore Giuseppe, allevava i migliori sciabolatori d’Italia. Unica donna a frequentare la sala, fu accolta con affetto e rispetto. Aveva 21 anni e seppe ben approfittare dei nuovi insegnamenti. Comini rinforzò il suo gioco di gambe e perfezionò il suo gioco contro le mancine, perché dava lezione anche con la mano sinistra. Fu selezionata per le Olimpiadi di Londra, col disappunto per l’esclusione dell’amica Strukel, che lei riteneva più meritevole. Ma ancora oggi non ha dimenticato le lezioni dell’olimpionico Gustavo Marzi, che accompagnava la squadra nel 1952, a Helsinki. Dopo le Olimpiadi di Roma, la Camber partecipò anche a quelle di Tokyo, ma solo a squadre. La tennero fuori dall’incontro per il terzo posto, contro le sovietiche che lei aveva battuto pochi mesi prima, e l’Italia finì quarta. Decise, così, di lasciare la scherma, come atleta. Fu però commissario tecnico del fioretto femminile per le due successive Olimpiadi. Ebbe il piacere di accompagnare, con questo ruolo, la squadra femminile a Monaco, nel 1972, quando Antonella Ragno raccolse il testimone e fu la prima a vincere l’oro dopo di lei. Esattamente vent’anni più tardi.