Un passo avanti

a cura di Giancarlo Toràn

Qualche anno fa parlavo con un maestro “importante”: perdonatemi se non faccio nomi, per non sollevare polemiche inutili. Il rapporto fra maestro ed allievo è spesso così forte, sul piano emozionale, da divenire quasi religioso: nel senso di accettazione acritica di dogmi, che dovrebbero invece sempre essere messi in discussione. Tutto cambia, anche la scherma. A volte basta un’impugnatura diversa, una lama più flessibile, il cambiamento di una regola – penso ai tempi di impatto e a quelli del colpo doppio dell’apparecchio di segnalazione – e la tecnica, per essere vincente, deve subito adeguarsi, sfruttare le nuove possibilità, abbandonare i vecchi sentieri. Pensate, per esempio, uno fra i tanti, alle polemiche antiche su quale fosse la migliore fra l’impugnatura italiana e quella francese: oggi, nel fioretto, sono state abbandonate entrambe: un buon motivo ci sarà…

 

Il maestro “importante” aveva la ferma convinzione che per fare un passo avanti bisognasse rispettare scrupolosamente la seguente dinamica: prima si solleva la punta del piede anteriore, poi il tallone, il piede si sposta in avanti, si posa prima il tallone, poi la punta. Rispettabile parere, senonché un altro maestro, per me ancora più “importante” del primo, sosteneva il contrario: si solleva prima il tallone, e poi la punta.

Chiesi quindi al primo come mai ci tenesse tanto a far eseguire così rigorosamente il passo alla sua maniera: che, per intenderci, era la maniera antica, e forse ancor oggi insegnata nella sua scuola. La risposta la ricordo ancora, e mi sembrò presuntuosa ed irritante: è la scherma! mi disse. Come dire: impara la scherma, e capirai.

 

L’altro maestro, pur non spiegandone i motivi, mi disse una cosa molto più condivisibile: guarda! Ed è quel che feci, a partire dagli allievi del primo: che scrupolosamente, dopo essersi messi in guardia, rispettavano la consegna, ma solo per il primo passo. Poi muovevano i piedi esattamente come tutti gli altri. Fortunatamente era già facile e diffuso il supporto delle riprese video, per cui dubbi proprio non me ne rimasero. Vi invito, se ve ne restano, a guardare, come ho fatto io.

Mi sono domandato, a questo punto, il perché della differenza, e dopo aver compulsato qualche trattato più o meno recente, e aver fatto di persona qualche prova, la risposta è arrivata, lampante.

La guardia di un tempo, diciamo quella del Masaniello Parise, per citare un classico italiano, era ampia due piedi. Il peso del corpo era distribuito abbastanza equamente sui due appoggi, con una prevalenza, dettata dalla prudenza e dalla tradizione, del peso sulla gamba posteriore. Prima ancora – guardate le immagini – il peso era ancor più spostato sulla gamba posteriore. Provate, da quella posizione, a fare un passo avanti: sarà del tutto naturale alzare prima la punta del piede, e poi il tallone, per avanzare.

Oggi nessuno più adotta quella guardia. Si consiglia uno spazio fra i piedi di un piede e mezzo, che può crescere notevolmente, nel corso dell’assalto, per gli agonisti ben allenati: ma il peso, la verticale che scende dal baricentro, è nettamente più spostato verso il piede anteriore. Questa posizione, che in uno scontro sul terreno sarebbe poco prudente, per l’assalto sportivo è certamente più dinamica, e permette di avanzare più rapidamente. Provate ad assumerla, a fare uno o più passi, e constaterete che il modo giusto di camminare è quello indicato dal secondo maestro. 

È la scherma, no?

Un piccolo poscritto, sollecitatomi dall’amico e collega Davide Lazzaroni. Nei “Quaderni di spada” editi dalla Scuola dello Sport del Coni, e precisamente nell’articolo sulla scherma italiana e francese, avevo riportato una storiella orientale, che aiuta a capire come le tradizioni non vadano mai accettate acriticamente. Conoscendone le origini, e le cause, si può prenderne il buono, e lasciar perdere quel che non va più bene.

L’abate di un monastero Zen aveva una sola debolezza: un gatto che, sicuro dell’affetto del padrone, era il vero padrone del monastero. Il gatto soleva passeggiare perfino nella sala di meditazione mentre i monaci la occupavano e, strusciandosi e camminando vicino a loro, ne turbava la concentrazione. L’abate prese allora l’abitudine, prima della pratica della meditazione, di legare il gatto davanti alla porta della sala. Passò il tempo, e legare il gatto divenne un’abitudine cui nessuno faceva più caso.

Poi, un giorno, l’abate morì, ed il suo successore provvedeva a legare il gatto al momento giusto.

Poi morì il gatto, e il successore dell’abate mandò subito a comprare un altro gatto, in modo da poterlo legare prima della meditazione.

 

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